Nel nostro laboratorio pratica teatrale e filosofica si intrecciano per esplorare le dinamiche interiori ed esteriori che modellano il nostro Essere. Indagando il tema della “lotta simbolica tra vizi e virtù” i partecipanti si immergeranno nei misteri della natura umana vivendo un’esperienza di crescita personale e collettiva. L’esplorazione dei ruoli, l’improvvisazione teatrale, l’osservazione di sé e le tecniche meditative saranno gli strumenti cardine di un viaggio conoscitivo nei meravigliosi e terribili abissi della realtà.
Psychomachia
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
In modo sobrio e pacato, come si confà alle anime espianti del purgatorio, Bonconte di Montefeltro racconta a Dante la propria storia: ferito a morte nella battaglia di Campaldino, con la gola tranciata barcolla verso il fiume e lì stramazza. Un ultimo, fugace pensiero di redenzione rivolto alla Madonna fa la sua salvezza: mentre già un diavolo d’inferno saliva a prenderselo sghignazzando, Dio invia un angelo veloce come una saetta su di lui per reclamarne l’anima e sollevarla al cielo.
I purganti descritti nella “Divina commedia” camminano per anni e anni in tondo, attorno alla parete del monte sul cui cocuzzolo è L’Eden, perso all’alba dei tempi per il peccato originale di Adamo ed Eva. Patiscono una pena stremante e a volte dolorosa, ma durante questo lunghissimo penare sentono o vedono, recitati dagli angeli o scritti nella roccia, esempi della virtù opposta al vizio che ebbero in vita. Punizione e redenzione, perché terminato di scontare il castigo possano finalmente raggiungere i beati in paradiso.
In un certo senso è questa la psychomachia, la lotta per l’anima: un diavolo e un angelo si contendono il nostro destino, lottano nella nostra carne. Talvolta sembra prevalere l’uno, talvolta l’altro, e siamo costantemente tentati e sedotti da due poli: il bello e il piacevole, l’immediato e il lungimirante, l’egoismo e l’altruismo, la paura e il coraggio, l’ardimento e l’esibizionismo, la fatica e la comodità e così via, cosicché si configurano i vizi e le virtù del nostro spirito.
Anche uscendo dalla tradizione cristiana, i greci già incarnavano in dèi la sapienza, l’amore, ma anche la sete di vendetta e la discordia. I giapponesi narrano di un mondo affollato di kami, forze o demoni che abitano le cose e possono proteggere o insidiare gli esseri umani, a seconda che li onorino o li sfidino (il kami della risata, quello dei viaggi, quello dell’acqua placida…). Secondo shintoismo e taoismo l’anima dell’uomo è chiamata, reincarnazione dopo reincarnazione, a liberarsi dalle colpe e dalle illusioni fino a meritare di essere liberata dalla prigione del corpo.
Togliendo pure la religione, anche pensatori atei come Epicuro e gli stoici (in un certo senso avevano una concezione del divino, ma talmente depotenziata e critica da poterceli far chiamare ‘atei’ per approssimazione) sono stati campioni della psychomachia: riconosciuto che l’essere umano ha voglie, capricci, desideri, dolori e paure, come può temperarli per vivere felice? Come deve equilibrare il proprio desiderio di piacere per non cadere schiavo delle sue sorgenti? per non diventare crudele e malvagio pur di ottenerlo?
E qual è la nostra natura? Che si tratti dell’ikigai giapponese o dell’areté di Aristotele, molte e molti hanno sentito che alle donne e agli uomini come specie, e poi ai singoli in quanto individui, spetti un’occupazione prediletta e destinata, l’unica in cui possano sentirsi pienamente vivi e felici e fare il bene di se stessi e del mondo. Anche questa è psychomachia.
Da qualsiasi lato la guardiamo – cioè che si tratti di essere buoni e giusti, di trovare la felicità, di assicurarsi un premio nell’aldilà o di migliorare molto concretamente se stessi – ci troviamo di fronte a uno scontro: uno scontro intestino, contro i nostri vizi e le nostre mancanze, contro le nostre mutilazioni, contro i nostri meccanismi.
Attratti da ciò che poi ci drena e abbandona, respinti da ciò che invece ci farebbe star bene, spesso inconsci dei nostri autentici bisogni, sempre sospinti da qualche anelito che poi non sa dove andare, intraprendiamo tutti i giorni una psychomachia che siamo destinati a perdere, senza lasciarci aiutare dalle esperienze e dagli ammonimenti dei miliardi di esseri umani vissuti prima di noi.
Essi hanno vagato per le nostre stesse terre, hanno patito la stessa fame, si sono innamorati degli stessi corpi, hanno ucciso e sottomesso come tutti noi facciamo – chi in grande e chi nel piccolo –, si sono pentiti, hanno pianto, hanno trascorso notti insonni cercando consiglio nelle stelle, hanno sbagliato di nuovo, hanno cambiato strada, cambiato vita, temuto la morte, esplorato i segreti del dolore che ci portiamo dentro, ce ne hanno creati e lasciati di nuovi, ne hanno risolti di antichi…e a volte hanno dimenticato tutto questo.
La psychomachia la combattiamo innanzitutto con la memoria: tornando consapevoli di noi stessi, ricordandoci cosa ci ha feriti, cosa ci ha slanciati, quando siamo stati meschini e cosa abbiamo provato, quando ci siamo vergognati di noi stessi, quando gli altri erano contenti di noi, quando noi lo eravamo…e ampliando la nostra piccola memoria di donne e di uomini con quella dei popoli, delle generazioni, dei millenni di errori, sangue e saggezza che come umanità abbiamo distillato.
Esploreremo uno dopo l’altro i vizi degli eroi, dei demoni, dei mostri, alla ricerca di quel che di orribile ci portiamo dentro. Ed esploreremo gli antidoti, quelle forze, quei sentimenti che ci cambiano la vita, che ci illuminano la strada, che ci fanno non solo sfuggire il vizio, ma lo trasformano nel suo contrario, nella gioia, nella bontà, nella virtù della felicità, nella vita buona che ogni nuova stirpe di uomini ha tentato di insegnare e garantire ai figli e alle figlie che ha disperso nel mondo.
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Articolo a cura di Alessandro Scali