Il secondo vizio capitale in questo nostro percorso: l'invidia. Volere non ciò che un altro è, ma quel che ha - senza comprendere che ha quel che ha proprio perché è quel che è!
L’invidia allo specchio
“Grimilde di Manhattan, statua della libertà, ormai non ha più rivali la tua vanità e il gioco dello specchio non si ripeterà: sono più bella io o la statua della pietà?” Fabrizio De André.
Cosa intendeva questo grande cantautore? Di chi parlava?
Grimilde è la regina “cattiva” – bando ai giudizi affrettati – di Biancaneve: una donna di potere, non sposata, sovrana politica e regina di bellezza, che ama essere amata, venerata, e non accetta rifiuti. Tenendo conto che parliamo di una fiaba medievale, che ancora risponde a ideologie e simbologie profondamente patriarcali, potremmo dire che Grimilde è bella di una bellezza “maschile”: è autoritaria, maestosa, spietata, competitiva, solitaria ed egoista, corrotta dal potere, dall’ascendente (economico e sessuale) che sa di avere sugli uomini e col quale li ricatta (vedi il cacciatore).
È potente e indipendente, sola con sé stessa: o meglio, con la propria immagine. Quel che resta a chi sta solo è l’immagine che ha di sé. Infatti, l’unico interlocutore di Grimilde è uno specchio, servo devoto, ma strumento di verità: le rivela che non è più la più bella del reame. Lì crolla il suo mondo, si spalanca la voragine della sua paura: si svela tutto ciò che le mancava, la vanità della vanità, il senso di vuoto, l’angoscia di non essere nessuno, di non essere abbastanza, di essere stata superata – e qui esplode la sua ira (anche a questa abbiamo dedicato un approfondimento!).
Al suo opposto, inconscia della propria bellezza e incapace di invidia, c’è Biancaneve: buona fino all’ingenuità, supplice e non imperiosa, servizievole e non capricciosa, umile e non superba. La sua è una bellezza morale, infantile, che eleva gli spiriti anziché corromperli – e infatti, il cacciatore, pur sapendo il rischio che corre, vedendola inerme, deciderà di risparmiarla e di ingannare la regina, che di fatto poi lo giustizierà per averla truffata. Una vera e propria conversione in senso cristiano e stilnovista, dove la castità di una donna può redimere un uomo dagli impuri desideri e dai peccati in cui le altre invece lo inducevano – la regina lo istiga all’omicidio!
Ma cosa invidia Grimilde in Biancaneve? Forse il candore? La bontà? La purezza d’animo? Assolutamente no: le invidia la bellezza in quanto potere, in quanto ascendente, in quanto capacità di trasformare i cuori altrui. Il cacciatore violento la risparmia, i nani brontoloni la accettano in casa propria, gli animali selvatici le sono amici, questo perché essa è immacolata, addirittura angelica (sempre nel quadro simbolico per cui la verginità femminile è considerata, ingiustamente, un alto valore morale da preservare e idealizzare).
Questa è la vanità: non solo vanteria, amarsi eccessivamente, ma amarsi a vuoto, senza cercare conferme, senza andare alla sostanza, senza verificare cosa renda realmente amabili e amati. Grimilde pecca di superficialità, l’invidia è una forma acuta di giudizio superficiale: adorazione dell’immagine e non della sostanza, immaginazione di come si è percepiti dagli altri e di come i nostri “rivali” appaiono agli occhi di quello stesso pubblico di cui vorremmo essere noi i favoriti, l’invidia è disconoscimento dell’altro, ignoranza della realtà e delirio dell’apparenza.
Grimilde sa di essere bella perché se lo dice da sola, Biancaneve non sa di essere bella ma tutti glielo riconoscono. La prima è temuta, la seconda amata. Grimilde crede di poter essere amata solo perché bella esteriormente, mentre ha un’anima crudele e rancorosa, e non può neanche capire fino in fondo che cosa renda quella ragazza tanto “bella” – nel senso morale e quasi angelico che dicevamo –, può solo confrontare e soppesare gli effetti della propria bellezza e della sua e scoprire che ne esce sconfitta. Può solo odiare e distruggere la bellezza altrui come nemica.
L’invidia è un sentimento ostile ed egoriferito, quello che matura chi vede innanzitutto se stesso superficialmente, per poi banalizzare anche gli altri ai loro aspetti più appariscenti, negando complessità e sfaccettatura ad entrambi, riducendo l’idea di “successo” a pochi tratti esteriori e salienti, annullando difficoltà e percorso, finendo dunque per vedere gli altri come avversari e se stessi come oggetti da perfezionare, non persone piene e ricche di bellezze e di problemi.
E se nell’antica fiaba le due figure icastiche sono la regina arrogante e l’umile serva, nella canzone di De André con cui abbiamo aperto sono la statua della libertà (che infatti indossa una corona), simbolo arrogante di potere, slanciata, stagliata, orgogliosa, dominatrice, e quella della pietà, ritratto tragico della madre addolorata, della sempre vergine Maria che, spezzata dal lutto, piange, abbracciando il corpo del figlio morto e accettandone umilmente il destino (il volere di Dio).
Di nuovo la serva, la donna pura e senza ambizioni di potere, povera e persino maltrattata, aggredita, è l’immagine della carità, che sconfigge e sconfiggerà sempre il rancore e la superbia di chi vuole sopraffare, dimostrarsi migliore di tutti attaccando e annientando, invidiando velenosamente chi, nonostante debole e sconfitto, riceve amore (perché ama) più di lui.
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Articolo a cura di Alessandro Scali