L’ira funesta di Achille, il girone degli iracondi nell’inferno dantesco, la rabbiosa smania di vendetta di Rigoletto, MacBeth e Oreste…tutti hanno in comune una stessa pulsione, una delle più trabordanti, delle più narrate, delle più discusse: “L’ira, un acido che può corrodere più il recipiente che lo contiene che non qualsiasi cosa su cui venga versato.” (Seneca, De ira)
In principio era l’ira (o la pace?)

Il filosofo John Locke sosteneva che l’umanità vivesse, in origine, armoniosa e pacifica senza leggi o istituzioni, ma che uno Stato e delle carceri divennero necessarie il giorno che qualcuno commise la prima ingiustizia – senza un’autorità che gestisse condoni e punizioni, dice, si sarebbe senz’altro innescata una catena di vendette interminabile, una faida di sangue nei secoli dei secoli.
Oggi, ancora, si parla di “raptus omicida”, di delirio di onnipotenza, di stragi commesse da singoli impazziti, di “furor di popolo” quando le masse si sollevano. E va detto che Ottocento e Novecento sono stati secoli in cui il grido: “Organizzatevi! Lottate!” è diventato simbolo del cambiamento, del ribaltamento di vecchi ordini opprimenti in favore di nuovi, più sostenibili. L’ira pazza e illegale del singolo, la rabbia profonda e trasformativa delle masse che cambiano il mondo, la follia della folla che si lascia aizzare contro bersagli simbolici – e spesso deboli – anche sui social (le “shit storm”, il bullismo collettivo che tempesta di commenti aggressivi e dislike chi è considerato nemico).
L’ira, la rabbia sono dentro tutti e tutte noi. Ma di cosa parliamo? Due caratteristiche sembrano tornare sempre: l’offuscamento del giudizio e il dipendere da un altro evento. “Essere accecato dall’ira”, “non vederci dalla rabbia”, “essere fuori di sé”, sono tutte espressioni che ricordano Seneca quando sentenziava: “L’ira è una forma di follia, una perdita di controllo su se stessi.” Le ricerche neurologiche confermano che durante gli episodi rabbiosi, così come quando si consuma alcool, la corteccia prefrontale lavora di meno, quasi si disattiva – ed è la parte del cervello che si occupa della valutazione dei rischi, della gestione del pericolo e dell’autoconservazione! Da arrabbiati, valutiamo male le conseguenze delle nostre azioni, spesso e volentieri mandiamo a monte o compromettiamo lavori promettenti e relazioni importanti o distruggiamo oggetti a cui teniamo (per poi pentirci).
Secondo: la dipendenza. Ogni volta che ci riflettiamo, la rabbia sembra innescata da un evento esterno e contrario, che percepiamo come ostile – quasi che il mondo o qualcuno tutto attorno ci volesse del male e venisse a danneggiarci. Qui, però, è necessario fermarsi per fare una distinzione: la rabbia è l’emozione ruggente che esplode sul momento, in un particolare frangente, mentre l’ira è il sentimento soggiacente, ossia un accumulo di rabbie passate non sfogate né risolte e una tendenza a provarne di nuove più facilmente degli altri. E come insegnava Aristotele, il vizio non è una singola azione malvagia, così come la virtù non consiste in singoli atti di eroismo: la buona e la cattiva condotta sono abitudini, modi di fare e di pensare consolidati dall’esperienza e dalla ripetizione. Per questo l’ira, e non la rabbia, è annoverata tra i vizi capitali.
Ma torniamo alle cause. Che cosa ci fa arrabbiare? Ciò che ci danneggia. L’amico che tradisce la nostra fiducia, mettendoci in difficoltà o in imbarazzo con gli altri, chi ci deruba di un bene prezioso, il maledetto spigolo che attenta alle nostre dita dei piedi ogni volta che passiamo: ciò che ci rende deboli. Diceva Spinoza che tutta l’etica e la morale si riassumono in un solo principio: chiamiamo “buono” ciò che ci rende più forti, che ci permette di plasmare più facilmente il mondo attorno a noi secondo i nostri desideri, che aumenta il nostro potere di controllo sulla vita e sul mondo (laetitia, gioia), e, al contrario, “cattivo” tutto quel che ci indebolisce (tristitia). Ecco, la rabbia è la risposta prepotente e naturale ad una diminuzione di potere: cerchiamo di riaffermarci quando veniamo oppressi o sminuiti, aggrediamo il mondo quando esso ci aggredisce, vogliamo ripristinare la nostra precedente condizione di forza.
Peccato che questo sia contagioso e vizioso: se un mobile in mezzo ai piedi non può covare traumi e disturbi di personalità, un altro essere umano contro il quale sfoghiamo la nostra ira ha tutto il necessario per serbare rancore e vendicarsi. E, peggio che peggio, se non si sfogherà contro di noi, i colpevoli della sua tristitia, perché siamo troppo distanti o troppo forti, o perché siamo talmente bravi da ingannarlo e scaricare la colpa su altri, ecco che riverserà la sua animosità contro altri malcapitati – coniugi, figli, passanti, membri di categorie che già prima disprezzava… -, generando altri sofferenti e altri iracondi. La faida di Locke sembra avere un fondamento reale.
Tra sopportazione e sfogo, la domanda odierna è questa: quanta rabbia ci serve per non farci calpestare, per reagire alle ingiustizie? e quando, invece, l’ira divampa in modo cieco e dannoso per noi stessi, concedendoci un istante di sollievo, ma lasciandoci poi a dover gestire i danni che abbiamo fatto?
“…perché colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere.” (Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1, IX “Si deve rimproverare chi usa la violenza per nuocere, non chi la usa per rimediare.”)
Articolo a cura di Alessandro Scali